Borghi brembani
Borgo di Pagliari
UN PO DI STORIA
Pagliari
PAGLIARI, la memoria nella Pietra. Lassu’ dopo le ultime case di Carona, ai margini della strada che porta al Rifugio Calvi e, da qui, alle tante varianti della rete sentieristica delle Alpi Orobie spunta sulla destra, da una piccola quanto suggestiva radura, la Frazione di Pagliari. Un borgo antico, fra i meglio conservati nella sua architettura rustica, che d’inverno appare come un unico sasso compatto e scuro, che si distingue sul tappeto immacolato della neve, mentre d’estate si stempera all’interno di un paesaggio più dolce e variegato, dove le lingue verdi dei pascoli e dei prati s’insinuano fra le stradine e i viottoli, dentro i suoi spazi aperti. Siamo nell’ultima valle dell’alto Brembo, nell’estremo avamposto bergamasco verso Nord, sotto gli imponenti contrafforti che dividono, e per certi versi uniscono, le valli orobiche da quelle della Valtellina. Le montagne che si allargano ad anfiteatro e che fanno da cornice alla superba cima del Pizzo del Diavolo, costituiscono, infatti, non solo lo spartiacque fra le due province limitrofe (Bergamo e Sondrio), ma anche l’epicentro di un’area culturale e commerciale fitta di sentieri e tracciati di comunicazione fra una valle e l’altra.
Il Video del Borgo
Li percorrevano abitualmente dopo l’apertura della Via Priula, verso la fine del ‘500 i contrabbandieri diretti in Valtellina e nei Grigioni svizzeri, per praticare i loro traffici di piccolo cabotaggio, senza dover passare sotto le forche caudine della dogana veneta di Ca’ San Marco. Dentro questo eden ancora intatto, lungo queste vie secondarie di traffici notturni, Pagliari è stata per secoli la “sentinella” dei viandanti, l’ultimo bivacco prima dello strappo finale sui tracciati transorobici. Ancora negli anni ’30 e ’40 – racconta Angelo Riceputi, 63 anni, proprietario di una stalla a Pagliari – si vedevano scendere a Carona lunghe file di cavalli provenienti dalla Valtellina, che trasportavano pesanti carichi di forme di “formai de mut” alle casere di Branzi o in occasione della Fiera Zootecnica, dove gli allevatori riuscivano a spuntare guadagni più sostanziosi rispetto a quelli che raccoglievano sui loro mercati. Scendevano dai passi di Venina, Publino e Cigola, strombettando i corni, e a Pagliari facevano una prima sosta, per uno spuntino. A quei tempi, infatti, Pagliari era una frazione viva, dinamica, con le sue case tutte aperte e i suoi abitanti in pianta stabile, dediti all’agricoltura e all’allevamento. Tutto funzionava, secondo i ritmi scanditi dal tempo: l’osteria, la chiesetta di San Gottardo, la fontana.
Le stalle erano piene d’animali, sulle piazzette era un via vai di gatti e galline, le case avevano i fiori alla finestra e le strade erano tenute pulite dalle erbacce. Giù in fondo, nella valletta il fiume Brembo gorgogliava vivace, e le donne vi si recavano per lavare i panni. Il paese contava oltre 100 anime, e stagionalmente i maschi emigravano in Svizzera o in Francia. Ma questa era la normalità nelle valli brembane. Poi, dopo la guerra, le cose sono andate progressivamente cambiando, ed il bel villaggio alpino ha iniziato a spopolarsi. L’antica “contrada di pietra” tutta costruita con il l’ardesia delle montagne vicine, ha pian piano chiuso i battenti, o meglio gli “scarnas” isolandosi dal centro di Carona, diradando i rapporti commerciali intervallivi ma soprattutto degradandosi nelle sue costruzioni, che venivano abbandonate. Soltanto gli anziani tenevano duro, rimanendo attaccati alle loro origini e, quindi, ai loro giacigli. Ancora gli inizia degli anni ’60 sotto i tetti di Pagliari viveva una dozzina di famiglie per un totale di 60 abitanti. Molte famiglie, soprattutto le più giovani, scesero a valle, nelle belle case di Carona, o si trasferirono in città verso le grandi fabbriche di Bergamo e Milano.
Sono ancora in molti a ricordare i campetti dei Pagliari, nei quali trionfavano le porchere, quelle erbe foglia larga e dura, poco gradite anche alle stesse mucche. Più niente. Ma poco importa, anche perché non ci sono più le bestie di una volta, dal palato non troppo fine. Insomma, in poco tempo Pagliari rimase orfana di tutto e di tutti. Fortunatamente, la storia venne in aiuto alla grigia località, rinnovando i suoi corsi e ricorsi. L’abbandono, infatti, durò soltanto alcuni anni, perché qualcuno avvertì presto la nostalgia e pensò di rimettere in sesto la casa dei genitori, almeno per il suo valore effettivo. Iniziarono i primi restauri con un occhio alle proprie radici e un altro alle opportunità concesse dal nascente turismo naturalistico. La bella contrada dell’alto Brembo tornava pian piano a rivivere, grazie a qualche emigrante che passava le vacanze nella vecchia casa dei genitori o a certe famiglie milanesi che salivano fin lassù durante i week-end e in estate. A tutt’oggi quasi il 50% delle abitazioni sono state rimesse a nuovo – continua Angelo Riceputi – Io stesso ho effettuato alcune ristrutturazioni. Dapprima si sistema il tetto, poi le parti in legno, e infine si aggiustano tutti gli interni. Con il res, cioè i ciottoli di fiume si compongono le stradine e le piazzette. In questo modo Pagliari sta risorgendo anche se parlare di ritorno alle origini è ancora troppo presto. L’unico abitante fisso è Ettore Riceputi, classe 1920, che da aprile ad ottobre, quando sui pascoli sono presenti le mandrie dei pastori, vive stabilmente nella sua baita di Pagliari. E’ un pensionato, e dopo 35 anni di lavoro in Svizzera, come carpentiere, è tornato a Carona, e fa la spola stagionalmente nella sua vecchia Pagliari. D’inverno sale fin quassù soltanto per dar da mangiare alle sue galline.
I campi vennero abbandonati, il bestiame venduto, e le galline fatte in padella. Le case, le belle case con i tetti in ardesia e le piccole finestrelle con l’architrave in legno, rimasero sole, in silenzio, a veder passare le stagioni fuori dalla porta. Divennero tristi, si piegarono su se stesse, e molte crollarono. Per Pagliari, il villaggio di pietra a 1350 metri di quota, a mezz’ora di mulattiera da Carona, furono gli anni della decadenza, del degrado strutturale dell’abbandono. I campi, dove cresceva il granoturco di montagna, furono riassorbiti dal bosco, come pure i pascoli lasciati in pasto alle erbacce infestanti. Per non parlare degli orti, dove si coltivavano le patate, le famose, patate de la Caruna la qualità sopraffina e conosciute sui mercati di tutta la provincia. Anche loro vennero lasciati andare al loro destino. Peccato, perché da allora questa leccornia non si trova più.
Le case di Pagliari attualmente sono una quindicina, tutte rigorosamente in pietra, adagiate su un pendio: i cultori di storia locale pensano che siano state costruite intorno al 1600, sasso su sasso, su basi prive di fondamenta. La piccola contrada è percorsa da sentieri e viottoli, che convergono nella piazzetta dove si affaccia la chiesetta di San Gottardo. Il lavatoio porta la data del 1914. Mentre sulla casa di fronte, un affresco, che raffigura una Madonna con il Bambino, è datato 1877. Una visita a Pagliari è d’obbligo, in tutte le stagioni. In estate il paesaggio è forse più dolce, accattivante, coinvolgente. Ma anche d’inverno, con la neve che sembra far emergere il borgo come un unico ammasso di pietre, l’effetto cartolina è senz’altro assicurato. Arrivarci, poi, è facile. Risalita la Val Brembana lungo la Strada Provinciale della Valle Brembana, a Piazza Brembana s’imbocca il bivio per la Val Fondra, una convalle dell’alta Valle Brembana, percorsa dal ramo orientale del Brembo. Giunti nella piana di Branzi, alcuni tornanti portano in pochi chilometri a Carona. Parcheggiata la macchina, si prende lo sterrato per il Rifugio Calvi e, dopo mezz’ora di cammino, ecco Pagliari, la contrada di pietra.